“Così costruisco un bestseller.
E poi lo riscrivo”
Candidato al Nobel, nei suoi romanzi condensa anni di riflessioni. Eppure Jonathan Franzen rimette mano a un successo come Le correzioni. Qui ci racconta perché. Svelando come sia in soggezione di fronte a donne attraenti. E come siano volgari gli antidepressivi di Livia Manera, foto di Andy Ryan
Un pomeriggio con Jonathan Franzen può
cominciare bene o male. E questo è cominciato male: Franzen mi
aspettava il giorno prima. Ora, a New York ancora più che altrove, una
star come il cinquantaduenne autore di quattro romanzi i cui ultimi due,
Le correzioni e Libertà (Einaudi),
sono stati allo stesso tempo bestseller planetari e successi di critica
formidabili; uno scrittore che ha avuto la copertina di Time;
che malgrado l’aspetto da studente è già candidato al Nobel, e che per
di più, in questo momento, sta affrontando il compito di riscrivere Le correzioni
per una serie televisiva prodotta da Scott Rudin, avrebbe potuto dire:
mi spiace, lei ha perso la sua occasione. Ma è tipico invece di Jonathan
Franzen sforzarsi di correggere la distanza intellettuale e di
prestigio sociale che spesso lo separa dal prossimo. Al punto da
offrirsi di dire: «È capitato anche a me, una volta», mentre mi prende
il cappotto nell’ingresso del suo appartamento.
Davvero? Quando?
Quando ho passato un periodo a Washington per il New Yorker e
non mi sono presentato a un appuntamento con il vicepresidente perché
avevo staccato tutto - compresi posta elettronica e telefonino - per
scrivere il mio pezzo. Quando li ho riattaccati ho trovato almeno una
dozzina di telefonate della sua segreteria.
Se
sta parlando di Joe Biden come penso, l’ha fatta decisamente più grossa
di me. E così, con le carte della nostra intervista sparigliate, ci
sediamo al tavolo da pranzo tra la cucina e il salotto, e cominciamo a
parlare di come deve essere cambiata la sua vita da quando ha smesso di
essere un talentuoso ma frustrato giovane scrittore americano. E nella
peggiore delle date possibili – cioè il 12 settembre del 2001 - Le Correzioni è approdato in libreria e ha rubato il cuore al grande pubblico americano, con le sue 600 e più pagine su
una famiglia disfunzionale del Midwest, nemmeno tanto tipica.
Cosa le ha cambiato la vita dopo il successo del suo libro?
Più che la fama, sono i soldi a cambiarti la vita. Non ne avevo mai avuti prima che uscisse Le correzioni, quando
avevo
quarantun’anni. E la cosa curiosa è che dal momento che il mio modo di
essere era già formato, sarei rimasto un povero per il resto della mia
vita, con la differenza che oggi sono un povero con i soldi. Ma una cosa
la fama l’ha certamente cambiata. Oggi so che ogni volta che accendo il
computer c’è qualcuno che vuole qualcosa da me.
Come cosa?
Qualunque
cosa. Persone che vogliono mandarmi libri e manoscritti; che chiedono
raccomandazioni, o soldi per associazioni benefiche, o sostegno alle
loro cause; apparizioni personali, interviste, o cose come “Possiamo
venire a fotografare la sua libreria per un pezzo che stiamo preparando
sulle librerie delle persone famose?”. E cos’è tutto questo se non la
più abietta venerazione della fama?
Con la sua aria da ragazzo studioso e con i suoi occhiali spessi sembra un timido, ma le sue opinioni non sono
timide affatto.
Quando qualcuno ti ferma in aeroporto e ti dice che gli piacciono i tuoi libri, come fai a non essere contento?
Il
rovescio di questa medaglia è che chiunque incontri oggi mi vede in
primo luogo come una persona famosa. Per questo mi sono molto cari i
rapporti che risalgono a quando ero uno sconosciuto. La fama ti
costringe a convivere con la paranoia di chiederti continuamente: a
questa persona piaccio perché le piaccio sul serio, perché le piace
l’idea che ha di me, o perché il fatto che io le piaccia le è utile?
Allora non è vero che è un timido?
Sì e no.
Sono timido al telefono, per esempio: non mi piace parlare con le
persone che non conosco. Nemmeno ai party. E certamente sono timido con
le donne attraenti: la sicurezza sessuale non era certo una cosa che ti
dava una famiglia come la mia.
Lei
viene da un sobborgo di St. Louis nel Missouri, padre svedese, madre
americana. E nei suoi libri ha quasi sempre esplorato i luoghi e
l’ambiente sociale in cui è cresciuto.
Perché cercare altrove, quando puoi concentrarti su ciò che conosci bene?
Perché
potrebbe diventare una limitazione (la mia è una domanda provocatoria,
ma lui sorride tranquillo perché sa bene che non è vero).
Per
risponderle dovrei ricorrere al mio scrittore nordamericano preferito,
l’autrice di racconti Alice Munro, quando dice che «non c’è fine alla
complessità delle cose nelle cose». E se è questo che ti interessa,
allora i contorni del paesaggio che più ti è familiare sono la tua
àncora. Le limitazioni di cui ho veramente paura sono altre. Sono
abbastanza intelligente? Sono abbastanza sensibile? Ho accumulato
abbastanza esperienza, per trovare più cose nelle cose?
E cosa si risponde?
Senta:
scrivere un romanzo serio è qualcosa che ti costringe all’umiltà. Sono
passato quattro volte per l’esperienza di cominciare un romanzo e di non
avere la più pallida idea di come riuscire a scriverlo. E la soluzione è
sempre stata di iniettarvi un po’ di avventura. Il senso del rischio è
contagioso. Come lettore sono molto stimolato quando sento che uno
scrittore sta rischiando, che si sta misurando con qualcosa che potrebbe
esporlo alla vergogna, o a far del male a qualcuno.
Mi dice che cosa l’ha spinta allora ad accettare di riscrivere Le correzioni per la televisione, invece di lavorare a qualcosa di nuovo?
Me
lo chiedo anch’io. All’inizio dovevo essere solo un consulente alla
produzione. Ma la verità è che non vedo un altro scrittore che possa
conoscere i miei personaggi come li conosco io, e lavorare ad aggiungere
nuove scene.
Aggiungere nuove scene? Perché?
Perché un romanzo consiste nella virtuosa gestione di quello che ne rimane fuori. Nelle Correzioni molte
cose le avevo lasciate fuori perché non riuscivo a immaginarle, per
esempio. E invece adesso devo ritornarci sopra e farlo. Com’erano
veramente questi personaggi? Come sono diventati quello che sono?
Ce lo vuole dire? In altre parole, come si scrive un romanzo? È diverso da una sceneggiatura?
Il
lavoro vero avviene prima della scrittura. Quando poi ci arrivo, quello
che butto giù è più o meno la sua forma definitiva. Ciò che conta
veramente sono i tre, cinque, sette anni in cui ci penso su e prendo
appunti che raramente riguardo, ma che alla fine della giornata mi danno
l’idea di avere lavorato. Scrivere sceneggiature è esattamente
l’opposto.
Tutto questo lavoro di riflessione fa pensare alla psicoanalisi. È una cosa che fa parte della sua vita?
Preferisco non rispondere. Quello che posso dire è che sono desolato di vivere in una cultura che ha così svalutato
la
psicologia. Io mi muovo in un mondo freudiano, che cerca di capire
quali siano i veri motivi dietro le cose, e che usa la sensibilità per
comprendere in che modo i conflitti interiori diano forma alle persone e
ai loro comportamenti. E che tutto questo oggi sia rimpiazzato dalla
chimica del cervello, è un fatto di una volgarità inimmaginabile.
Le chiedo scusa, forse era una domanda troppo indiscreta.
No, può chiedermi quello che vuole (si allontana un attimo a prendere un bicchiere d’acqua, ndr).
Solo che una delle prime lezioni della fama, per tornare all’inizio
della nostra conversazione, è che quando rispondi non pensi che quello
che dici sarà stampato. E questo all’inizio mi ha procurato non pochi
guai, e di conseguenza rabbia… Ecco: una cosa che è cambiata in questi
anni è che non sono più così arrabbiato. So di apparire immodesto se le
dico che rileggendo Le correzioni
sono rimasto colpito da quanto sia ben scritto. Ma quello che voglio
dire è che ho visto una prosa in cui traspaiono rabbia e autodifesa:
come se con quelle frasi così curate volessi difendermi, dimostrando di
essere stato capace di scriverle.
Quella
rabbia ha fatto la sua fortuna. Le ha permesso di iniettare in un
romanzo ambizioso la vitalità e l’energia che lo hanno reso popolare.
Forse. Ma quando mi sono chiesto da dove venisse, non ho trovato una riposta. E così la soluzione è stata un altro
libro, Libertà. Con molta meno rabbia, meno paura nell’approccio alla lingua, e tuttavia lo stesso forte legame a tenere
insieme la scrittura e la vita.
Io donna 25 febbraio
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